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Lo show di Trump e i nuovi equilibri del G20 di Buenos Aires

Analisi – Il G20 è l’evento più atteso per l’economia mondiale e nel recente meeting di Buenos Aires ha visto il Presidente degli Stati Uniti destreggiarsi fra partner sempre più insofferenti e un asse trasversale contro il riscaldamento globale. 

IL G20 IN UN CONTESTO DIFFICILE 

Il G20 si è riunito a Buenos Aires fra il 30 novembre e il 1° dicembre, con la presenza di tutti i principali leader mondiali. Il tredicesimo vertice delle economie più industrializzate del mondo è stato il primo a svolgersi in Sud America dalla data della sua creazione (1999). Per tale motivo ha rappresentato un banco di prova significativo per il presidente argentino Mauricio Macri, il quale ha dovuto affrontare anche le reazioni della popolazione locale contro il raduno.
La riunione ha preso il via in un contesto estremamente complesso: dalla guerra commerciale fra Cina e Stati Uniti all’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi – per cui viene indicato il principe saudita Mohamed Bin Salman come mandante – fino alla crisi ucraina – con l’applicazione della legge marziale da parte di Kiev a causa del sequestro di tre navi per opera dei russi.
Proprio gli eventi nel Mar d’Azov sarebbero stati alla base della scelta del presidente statunitense Donald Trump di cancellare l’incontro in programma con l’omologo Vladimir Putin. Tuttavia è anche sembrato sospetto il tempismo della decisione, a ridosso della dichiarazione di colpevolezza dell’ex avvocato di Trump Michael Cohen, coinvolto all’interno delle indagini sui rapporti fra il comitato elettorale dell’allora candidato reubblicano e la Russia – egli avrebbe ammesso di aver mentito al Senato in merito alla faccenda. Il fatto rappresenta una concreta minaccia alla tenuta della Presidenza, in quanto Cohen è una delle persone più vicine a Trump. È probabile, dunque, che i tentativi da parte di Trump di costruire un canale con Putin siano stati ridimensionati a causa delle pressioni sul fronte interno, più che per una reale volontà di modificare i rapporti.

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Fig. 1 – Il presidente argentino Macri durante una conferenza stampa 

G20, BANCO DI PROVA PER L’ARGENTINA

Le proteste hanno infiammato l’opinione pubblica e messo a dura prova le misure di sicurezza messe in campo dal Governo argentino. Neppure l’interruzione della maggior parte del trasporto pubblico all’interno della città di Buenos Aires è stato sufficiente per contenere a pieno il livello di tensione. Si è anche deciso di mantenere una distanza di 5 chilometri dal centro in cui si sono svolti i meeting.
Alla base dell’opposizione c’è l’accusa, nei confronti del G20, di non affrontare adeguatamente tematiche come la povertà, la fame e il cambiamento climatico, mentre il focus sarebbe sulle questioni migratorie, l’austerity e le misure economiche in atto nel Paese sudamericano, come ha dichiarato il segretario generale del sindacato argentino ATE Capital, Daniel Catalano: «Non parleranno di povertà. Non parleranno di cambiamento climatico, non parleranno di come migliorare la qualità della vita. Parleranno di come dividere la ricchezza della maggioranza e la ricchezza della natura».
Gli slogan sono stati rivolti anche contro il presidente degli Stati Uniti Trump, associato con quel neoliberismo contro cui i manifestanti si sono scagliati durante le proteste.
La crisi economica argentina, inaspritasi nell’ultimo anno, è un ulteriore collante fra i gruppi coinvolti nelle manifestazioni, oltre all’indignazione a seguito della morte di due attivisti del Comitato Trabajadores de la Economia Popular (CTEP) la settimana precedente il G20: il primo, Rodolfo Orellana, è stato ucciso con un colpo di pistola durante un’occupazione di suolo all’esterno di Buenos Aires; il secondo, Marcos Soria, è stato ucciso allo stesso modo a Cordoba. Secondo le organizzazioni Correpi – contro gli abusi commessi dai membri della polizia – e Fuera G20 FMI i due atti sarebbero stati commessi da degli agenti. Stando al portavoce del ministro provinciale per la Sicurezza di Buenos Aires, sarebbero in corso delle indagini interne.
Il contesto decisamente turbolento ha contribuito a rendere il G20 un evento difficile da gestire per il presidente Macri, il quale ha dovuto far fronte anche all’esplosione di violenza durante la partita fra River Plate e il Boca Juniors, tale da far interrompere il match. L’attuale congiuntura economica dovuta all’aumento dei tassi di interesse negli USA e il conseguente apprezzamento del dollaro ha aggravato la precaria condizione economica argentina per via della fuga di capitali verso gli Stati Uniti – divenuti un Paese più attraente – e ha contribuito al calo della popolarità di Macri – ormai attestata al 30%.
Il Presidente argentino si avvia ad attuare una riforma economica volta ad azzerare il deficit per il 2019 – i dati del 2017 parlano di un deficit al 3,9%,– coadiuvato dal proprio ministro delle Finanze Nicolas Dujovne. Fra le soluzioni in via di adozione ci sono un aumento delle imposte sulle esportazioni agricole del 10%, 10,6 miliardi di dollari di tagli alla spesa pubblica, il taglio dei ministeri da 23 a 11. Vista la situazione, l’ambizione del Presidente era che il G20 non divenisse un ennesimo tentativo fallito, ma, al contrario, producesse un documento che potesse caratterizzarlo almeno simbolicamente come un successo.
L’Argentina di Macri ha giocato un ruolo particolarmente difficile anche per le aspre prese di posizione di Trump nei confronti della Cina, alla quale ha attribuito un comportamento predatorio. Gli ufficiali argentini sono stati quindi costretti a una dichiarazione per smorzare i toni, data la massiccia quantità di investimenti cinesi ricevuti dal Paese sudamericano – compresi 8 miliardi di dollari per la costruzione di una nuova centrale nucleare.

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Fig. 2 – Manifestazione contro il G20 del 28 novembre

LE RICHIESTE DI RIFORME

L’evento tanto atteso è iniziato sotto l’invito, da parte del gruppo di think tank dei Paesi più industrializzati del mondo, il T20, a una riforma del sistema del commercio internazionale. La richiesta avanzata dagli esperti era quella di ridefinire il sistema multilaterale attualmente in funzione e le Istituzioni che lo rappresentano, anche alla luce dell’accordo fra i ministri del Commercio del G20 di lavorare per riformare il WTO – celebrato nella città argentina di Mar del Plata. La riforma del WTO è stata poi ripresa nel novembre di quest’anno, a Ginevra.
La questione centrale era come il WTO potesse agire all’interno delle guerre commerciali, la più eclatante delle quali è naturalmente quella in corso fra Stati Uniti e Cina. Su questo punto si è espresso anche il T20, evidenziando la necessità di instaurare un dialogo per evitare l’escalation. Inoltre, il gruppo di think tank ha anche insistito sulla necessità di creare meccanismi compensativi per i Paesi svantaggiati dal commercio internazionale all’interno delle 20 proposte recapitate al presidente Macri – in quanto Presidente anche del G20.

G20, NUOVO ORDINE MONDIALE?

Il multilateralismo è il secondo pilastro delle proposte avanzate dal T20, definito come lo strumento indispensabile per affrontare le attuali sfide contro le quali le istituzioni della globalizzazione sembrano arrancare, sotto i colpi delle crescenti disuguaglianze e dei nazionalismi.
Le divisioni fra gli attori partecipanti al congresso sono state fin dall’inizio evidenti, a cominciare dalla già menzionata contrapposizione fra USA e Cina, ma anche per episodi incresciosi come l’omicidio del giornalista Khashoggi e la rinuncia, da parte degli Stati Uniti, all’obiettivo di creare un ordine globale fondato sulle libertà e i diritti fondamentali.
A tal proposito è interessante notare come il cleavage fra populisti e difensori dell’ordine multipolare si sia riproposto anche all’interno del G20, a cominciare dall’arrivo del presidente francese Emmanuel Macron. Quest’ultimo si è proposto come alternativa allo schieramento idealmente rappresentato dallo statunitense Trump, come baluardo del libero commercio, della globalizzazione e del liberalismo – sostenendo la necessità che la Turchia e l’Arabia Saudita arrivino ad accertare la verità sul caso Khashoggi, – nonché della lotta contro il cambiamento climatico – su cui l’opinione di Trump è notoriamente scettica.

GLI INCONTRI DI BIN SALMAN

Tra gli ospiti che hanno più fatto parlare di sé non poteva mancare il principe ereditario saudita Mohamed Bin Salman, primo ad arrivare a Buenos Aires e protagonista di una calorosa stretta di mano con il presidente russo Vladimir Putin.
Su di lui attualmente pende una denuncia presentata dal direttore esecutivo della ONG Human Rights Watch Kenneth Roth presso il procuratore federale argentino Ramiro Gonzalez per presunti crimini di guerra in Yemen, per i quali potrebbe essere ritenuto responsabile in quanto ministro della Difesa. Stando a quanto affermato dal direttore della divisione americana di HRW Jose Miguel Vivanco, il Procuratore avrebbe riconosciuto la validità della giurisdizione universale e l’obbligo di investigare su tali crimini. Nonostante ciò, l’agenda del principe Bin Salman non ha subito modifiche e ha visto gli incontri con i seguenti Capi di Stato e di Governo:

Emmanuel Macron Francia
Moon Jae-In Corea del Sud
Xi Jinping Cina
Enrique Pena Nieto Messico
Jusuf Kalla Indonesia
Narendra Modi India
Theresa May Regno Unito
IL CAMBIAMENTO CLIMATICO 

Un punto cardine dell’agenda sul cambiamento climatico è stato il comunicato congiunto sino-francese, rilasciato parallelamente al G20 a Costa Salguero e redatto assieme al Segretario Generale delle Nazioni Unite, il quale afferma che il riscaldamento globale metta a rischio la lotta alla povertà e allo sviluppo umano, dimostrandosi ancor più forte della dichiarazione che l’Argentina avrebbe portato avanti durante la riunione delle economie più importanti del mondo per via dell’enfasi posta sulla necessità di azioni urgenti – anche alla luce dell’ultima dichiarazione dell’IPCC, inclusa all’interno del comunicato.
Inoltre, fin dall’inizio la proposta argentina per un accordo sul riscaldamento globale non avrebbe dovuto menzionare la Convention sul Cambiamento Climatico delle Nazioni Unite – alla quale il comunicato congiunto sino-francese fa invece implicitamente riferimento, – che si terrà in Polonia nei prossimi giorni, al fine di non creare frizioni con gli Stati Uniti – intenzionati a uscire dall’Accordo di Parigi.
Al fine di contenere l’aumento della temperatura, Cina e Francia hanno raggiunto un comune accordo sulla necessità di promuovere un’economia a basse emissioni – in particolare, low-carbon,– sui cui si preannunciava fin dall’inizio lo scontro con Trump, forte di una campagna elettorale basata sul negazionismo climatico e sulla volontà di riportare in auge il carbone. Tale posizione ha condotto gli Stati Uniti a ritrovarsi isolati fra i ministri dell’Energia del G20, riuniti a Bariloce il 16 giugno 2018 anche per definire il combustibile di transizione verso una nuova era energetica, ruolo che verrà ricoperto dal gas naturale – il quale dovrà essere adoperato in maniera più sistematica dai Paesi partecipanti all’accordo, pur mantenendo ciascuno la propria strategia energetica. Da parte degli USA è stata sostenuta per mano del segretario dell’Energia Rick Perry la scelta del “carbone pulito”, attraverso riduzione delle emissioni di CO2 provenienti dai combustibili fossili, maggiore efficienza e impiego di tecnologie come la gassificazione del carbone.
All’interno della riunione i negoziati hanno prodotto a ridosso della chiusura un accordo di massima che ha visto Unione Europea e Stati Uniti su due schieramenti contrapposti sulla questione del cambiamento climatico. Alla base della discordia c’era la volontà statunitense che non venisse menzionato l’Accordo di Parigi all’interno del documento finale del G20 – al contrario dell’UE, che lo avrebbe voluto collegare in maniera esplicita all’Accordo. A conclusione del G20, 19 partecipanti hanno espresso la volontà di supportare l’Accordo di Parigi, con gli USA di Trump come unico Paese a non aderire al contenuto dell’Accordo e alla posizione assunta dal G20 sul tema.

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Fig. 3 – Il presidente Xi Jinping ed il suo omologo Macri al G20

IL NUOVO NAFTA 

Un nuovo capitolo dell’assetto internazionale è stato scritto a lato degli eventi che hanno caratterizzato il G20: i capi dei Governi di USA, Messico ­e Canada hanno infatti firmato l’USMCA, il trattato commerciale che si avvia a sostituire il NAFTA, fortemente criticato da Trump fin dalla campagna presidenziale del 2016.
Da parte del Canada e del Messico – con la firma del presidente Pena Nieto il giorno prima della sua decadenza dal ruolo di capo dello Stato, sostituito ufficialmente da Lopez Obrador – è stato espresso l’appoggio al trattato, che viene visto come uno strumento per ulteriori benefici per tutti i Paesi coinvolti.
Fra le modifiche più importanti il nuovo accordo stabilisce per i prodotti automobilistici che almeno il 75% delle parti debba essere fabbricato degli Stati Uniti – prima era il 62,5%. Inoltre, fra il 40 ed il 45% del veicolo dovrà essere fabbricato da lavoratori che guadagnano un minimo di 16 dollari l’ora. Altro elemento fondamentale, è prevista una clausola che nega la possibilità per le parti contraenti di intrattenere negoziazioni commerciali con Paesi che non sono economie di mercato – clausola proposta dagli USA che punterebbe a penalizzare la Cina.
Secondo Politico, tuttavia, il nuovo accordo manterrebbe in vigore la maggior parte degli elementi del NAFTA, ricoprendo principalmente una funzione simbolica di promozione del messaggio “America First”.
La questione passa al Congresso degli Stati Uniti, il quale dovrà pronunciarsi in merito, ma che probabilmente esaminerà il trattato per l’anno prossimo, al momento dell’insediamento della maggioranza democratica.

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Fig. 4 – Trump, Trudeau e Pena Nieto alla firma del trattato istitutivo dell’USMCA

TREGUA COMMERCIALE? 

Il ritorno al protezionismo da parte degli USA non poteva rimanere al di fuori della riunione del G20. Lo spirito del multilateralismo, contro la retorica del muro contro muro, è stato riproposto dai partecipanti come il punto cardine su cui fondare il confronto fra Stati Uniti e Cina, il quale ha portato alla decisione di attuare una tregua di 90 giorni per trovare un accordo.
Sebbene il discorso portato avanti da Trump è stato basato sulla volontà di proteggere il mercato americano e ridimensionare il disavanzo commerciale, le conseguenze della politica dei dazi rischiano di essere controproducenti, a cominciare dall’annuncio, da parte di General Motors, di chiudere fabbriche negli USA e Canada, tagliando il 15% dell’organico – per un totale di circa 14.700 lavoratori. La motivazione è la nuova situazione del mercato, con la volontà di risparmiare 6 miliardi di dollari per il 2020 reindirizzabili verso la produzione di veicoli elettrici e autonomi.
La rinnovata volontà di trovare un accordo ha seguito un’escalation che ha colpito anche la base elettorale di Donald Trump, fra cui i produttori di soia, mentre l’apprezzamento del dollaro a seguito dell’aumento dei tassi di interesse ha aumentato il costo delle esportazioni statunitensi, rendendole meno competitive. L’accordo fra le due parti prevede il ritiro della minaccia, da parte degli USA, di implementare dazi per 200 miliardi di dollari per il 1° gennaio. D’altro canto, la Cina ha accettato di comprare una “quantità sostanziale” di prodotti americani, in particolare dal settore energetico, agricolo – da acquistare nell’immediato – e industriale, come riportato dalla Casa Bianca.
L’intesa si fonda anche sull’avvio immediato di un dialogo per affrontare 5 aree su cui si richiedono riforme da parte della Cina: il trasferimento forzato della tecnologia, la protezione della proprietà intellettuale, le barriere non tariffarie, la pirateria e gli attacchi informatici, i servizi e l’agricoltura. Quest’ultimo punto è quello che ha richiesto il minor sforzo da parte della Cina, dato l’interesse già dimostrato nei confronti del settore agroalimentare.
Per ora entrambi hanno guadagnato tempo, mentre la risoluzione definitiva della crisi è ancora assente: 90 giorni, come affermato dall’economista Nouriel Roubini, sono un tempo breve per trovare un’intesa e tutto dipende dalla volontà di Trump di interrompere l’escalation in corso fino a pochi giorni fa.

Riccardo Antonucci

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Riccardo Antonucci
Riccardo Antonucci

Nato a Roma il 29 gennaio 1996. Laureato LUISS in Scienze Politiche in inglese, specializzato in Energy Policy Studies presso la Masaryk University di Brno. Sono il coordinatore del Programma Ambiente, promuovendo lo studio della geopolitica dell’energia e del clima a livello globale.

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