Analisi – Lo scorso 14 novembre i vertici del Governo britannico, capitanati da Theresa May, si sono incontrati con i capi europei per stipulare l’accordo decisivo per la Brexit 2019, seguito a numerosi round di negoziazioni avviati nel marzo 2017.
COSA ACCADE CON LA BREXIT
Dopo una lunga giornata di trattative, Theresa May, lo scorso 14 novembre, è riuscita a ottenere il consenso da parte dei ministri del Governo inglese per accettare l’accordo negoziato con Bruxelles per raggiungere un’intesa sul futuro delle relazioni del Regno Unito con l’UE nel post Brexit. Il sì sembra confermato, sebbene sia stato difficile convincere soprattutto i ministri irlandesi e scozzesi, che non vedono di buon occhio l’accordo speciale che l’Irlanda del Nord otterrà per rimanere più legata all’Unione Europea. Inoltre, un sì definitivo arriverà da Bruxelles soltanto a fine mese, quando il testo tecnico che è stato stilato riceverà anche un’approvazione politica. Ma cosa è accaduto dopo i risultati del referendum del giugno 2016? Il 29 marzo 2017, Theresa May, nella lettera indirizzata al presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk, dà il via al conto alla rovescia per il marzo 2019, anno in cui la Brexit diventerà effettiva e l’UE tornerà a essere un’Unione a 27 membri. Nei due anni che separano queste due importanti date è stata avviata la fase delle negoziazioni tra Autorità politiche e organi istituzionali, che sono chiamati a trattare per definire i termini del “divorzio” tra il Regno Unito e l’Unione Europea. Sono stati definiti, non senza difficoltà , alcuni punti importanti che hanno consentito di concludere la prima fase delle negoziazioni: tra gli accordi raggiunti il Primo Ministro inglese ha concordato che non ci saranno separazioni nette tra il confine dell’Irlanda del Nord e della Repubblica d’Irlanda, che Londra si impegnerà a pagare nel lungo termine una sanzione di 40 miliardi all’Unione Europea e che i cittadini europei residenti nel Regno Unito, così come gli inglesi sul suolo europeo, avranno tutelati i propri diritti. Si è così conclusa la prima fase di trattative di un accordo difficile, che non ha precedenti nella storia dell’Unione e che richiede dunque un forte impegno da parte delle figure istituzionali di entrambe le parti. Per l’Unione Europea è fondamentale mantenere credibilità agli occhi degli altri Stati membri: il rischio è infatti che la Brexit possa essere considerato un precedente da poter imitare, che spinga i Governi di altri Paesi in cui le forze populiste prevalgono a scegliere la strada della separazione dall’Unione. L’UE deve perciò riuscire a mostrarsi unita e capace di negoziare senza perdere credibilità . D’altra parte, anche per il Regno Unito la posta in gioco è alta, se si considera che il 47% dei beni esportati e il 39% dei servizi sono diretti ai Paesi europei, per un totale di 222 miliardi di sterline, il 30% del PIL. Soltanto il 6-7% delle esportazioni europee sono destinate al Regno Unito, ma la perdita più rilevante per l’UE sta nel potente settore dei servizi finanziari, che finora aveva il suo cuore pulsante a Londra e che adesso sta spostando il proprio baricentro verso altre capitali europee.
Fig. 1 – Theresa May, Primo Ministro inglese, parla alla Confederazione dell’Industria Britannica, la conferenza annuale che si tiene a Londra, per esporre il deal raggiunto per la Brexit lo scorso 19 novembre
QUALI SONO LE BASI DELL’ACCORDO?
Sin dall’inizio dei negoziati l’UE si è fatta avanti proponendo al Regno Unito la scelta tra due opzioni, entrambe storicamente avvenute: il caso della Norvegia, in cui lo Stato acquisisce in toto la regolamentazione vigente nell’Unione e continua a mantenere un pieno accesso al Mercato Unico, o il caso del Canada, in cui si stabilisce come accordo standard un Free Trade Agreement. Risulta evidente che nella prima opzione il Regno Unito continuerebbe a godere dei vantaggi del Mercato Unico, dovendo però rinunciare parzialmente alla propria autonomia e indipendenza, in quanto sarebbe vincolata a sottostare alle norme vigenti nell’Unione. Nel secondo caso, invece, un accordo di libero scambio priverebbe il Regno Unito dello status privilegiato di cui ha goduto finora come membro dell’Unione e sarebbe a tutti gli effetti un Paese d’oltre confine, senza contare che il modello canadese prevede una scarsa regolamentazione del settore dei servizi, la fetta economicamente più rilevante per Londra, circostanza che creerebbe ingenti danni all’economia britannica. Theresa May perciò sin dalle prime battute ha rifiutato la proposta di un modello standard, chiedendo esplicitamente di poter disegnare un accordo più in linea con le caratteristiche e le necessità imposte dal caso in questione. Il trade-off per il Regno Unito risulta evidente: aderire il più possibile al Mercato Unico per avere condizioni agevolate soprattutto per il settore dei servizi, senza però dover sottostare a regolamentazioni rigide non decise dal proprio Governo. L’opzione proposta perciò punta alla creazione di un accordo ad hoc, che prenda elementi sia dal caso norvegese che da quello canadese.
L’Unione Europea sostiene che il modello norvegese rappresenta lo standard piĂą coerente per estendere il mercato interno a Paesi terzi, sottolineando come questo sia un caso di integrazione del mercato, che differisce nettamente da quello di liberalizzazione del commercio ottenuto nel modello canadese. Perciò, dal punto di vista economico, il modello norvegese rappresenta la soluzione ideale per l’economia del Regno Unito, in quanto tutela la libera circolazione dei flussi di servizi, garantendo una piena integrazione tra mercati grazie all’appartenenza al sistema legale europeo, alla convergenza delle regolamentazioni e al libero movimento dei capitali e delle persone. Se economicamente questa sembra essere la soluzione piĂą vantaggiosa, a livello politico l’opzione suscita reazioni avverse da parte della classe politica britannica, poichĂ© l’aderenza alla regolamentazione europea in tal modo non consente la gestione autonoma dei flussi migratori, uno dei motivi principali che ha spinto al referendum per la Brexit.
Fig. 2 – 16 novembre, il primo ministro Theresa May esce dal numero 10 di Downing Street dopo aver ottenuto il consenso dai vertici del Governo sul deal raggiunto con l’UE per la Brexit
GLI ULTIMI ROUND
Lo scorso 6 luglio il Consiglio dei Ministri inglese si è riunito per discutere insieme e definire un framework condiviso dell’accordo sulla Brexit da stipulare con l’Unione Europea. La proposta finale lanciata dal Regno Unito prevede la creazione di una Free Trade Area per i beni, volta a garantire l’assenza di frizioni ai confini e la protezione del mercato del lavoro su entrambi i fronti, grazie anche all’introduzione di un Facilitated Customs Arrangement. Dal lato normativo il Regno Unito accetta di continuare ad aderire alla regolamentazione comune sui beni insieme all’Unione Europea, comprendendo anche i beni del comparto agro-alimentare. Invece, per quel che riguarda il commercio dei servizi, il settore più prolifico dell’economia inglese, soprattutto nel comparto finanziario, Londra propone un accordo ad hoc che consenta al Paese di avere flessibilità nelle regolamentazioni, rinunciando così agli attuali livelli di accesso ai mercati europei e viceversa. Il quadro generale sembra mettere in luce un accordo che garantisce continuità ai rapporti intercorsi finora tra Europa e Regno Unito, ma a ben guardare, Londra nel post-Brexit guadagnerà di nuovo la piena sovranità nazionale nelle decisioni riguardanti alcuni temi caldi che hanno portato a indire il referendum stesso, come ad esempio la gestione dei flussi migratori e il controllo dei movimenti delle persone entro i propri confini. Inoltre il Regno Unito sarà libero di portare avanti una trade policy autonoma e indipendente, e riprenderà un proprio posto a sedere al WTO per proporre tariffe e misure di scambio ad hoc con i propri partner commerciali. Non ultimo, Londra non dovrà più contribuire allo stanziamento di fondi per il budget UE, ma potrà finanziare progetti congiunti relativi a specifiche aree di interesse come scienza e innovazione. Cosa ne pensano i cittadini britannici? Gli elettori negli ultimi due anni sembrano essere diventati più pessimisti, in quanto è cresciuto del 16% il numero di sudditi di Sua Maestà che pensano che il Regno Unito subirà condizioni economiche avverse nel post Brexit. Anche sul fronte politico si è assistito a un declino nel supporto alla questione migratoria, in quanto nel 2016 il 74% del campione di elettori si era dichiarato favorevole a una preventiva richiesta di ingresso nei confini nazionali da parte dei migranti, dato aggiornato al 59% nel luglio 2018. I cittadini sembrano aver perso parte della fiducia iniziale riposta in un Governo risoluto a portare avanti una politica indipendentistica, mentre le condizioni economiche future sono ancora fortemente incerte. Cosa accadrà ?
Chiara Bellucci