Alla fine è successo veramente: il Regno Unito è il primo Paese a decidere di uscire dall’Unione Europea con una procedura che deve avviarsi e che può durare fino a due anni. Una decisione che avrĂ conseguenze interne ed esterne e che deve portare l’UE a riflettere sul suo futuro.
UN DURO RISVEGLIO – Nessuno, probabilmente, si sarebbe davvero aspettato questo esito. Neppure Nigel Farage, leader dello United Kingdom Independence Party (UKIP) e grande sostenitore dell’opzione “leave”, alla chiusura dei seggi sembrava crederci e anzi, alla luce dei primi sondaggi che davano il “remain” in testa, stava per ammettere la sconfitta. Invece, al risveglio, ecco la notizia che praticamente tutti ritenevano impensabile: il Regno Unito decide di abbandonare l’Unione Europea. Primo caso nella storia di questa istituzione, e che dunque spalanca ora ad una serie di incognite sul processo che porterà alla separazione ma soprattutto alle conseguenze politiche, economiche e sociali di tale avvenimento.
E ADESSO? – Ovviamente, l’esito del referendum non implica il fatto che Londra esca automaticamente dall’Unione Europea. Probabilmente sono tanti i cittadini britannici che, resi oggetto di manipolazioni e strumentalizzazioni di una certa parte politica, si attendono un ritorno alla piena sovranità già da domattina. Invece non sarà affatto così. Innanzitutto, va precisato che si trattava di un referendum consultivo, il cui risultato dovrà poi essere preso in considerazione dal Parlamento. In teoria, nulla vieterebbe agli MPs di Westminster di non dare seguito alla consultazione e di mantenere la Gran Bretagna nell’Unione. In pratica, in un Paese che è stato una delle culle della democrazia europea e dello Stato di diritto, la ratifica della volontà popolare da parte del Parlamento sarà inevitabile. Non avremo, dunque, una “riedizione” del referendum-farsa che si svolse l’anno scorso in Grecia, quando il “no” alle condizioni imposte da Bruxelles fu nei fatti ignorato portando all’accettazione di un piano di risanamento sostanzialmente uguale – se non addirittura più duro – del precedente.
Quel che è certo è che tra alcuni mesi dovrà iniziare una trattativa tra Londra e Bruxelles per decidere le modalità della separazione, in sostanza attraverso l’attivazione dell’Articolo 50 del Trattato di Lisbona. Sarà il Consiglio Europeo, su mandato del Parlamento, a condurre il negoziato per il recesso del Regno Unito. Recesso che sarà irreversibile a meno che tutti gli altri Stati membri non si esprimano unanimemente in senso opposto. La procedura è prevista durare due anni, al termine dei quali la Brexit dovrebbe diventare realtà .
Realisticamente, possiamo dunque immaginare come orizzonte temporale la fine del 2018, poiché l’Art. 50 sarà invocato molto probabilmente dal successore di David Cameron, che ha deciso di dare le dimissioni traghettando il Regno Unito a nuove elezioni in autunno. Al successore (probabilmente l’attuale leader dei Conservatori Boris Johnson?) toccherà dunque condurre il negoziato con Bruxelles. Tutti gli accordi attualmente in essere dovranno essere smantellati, così come bisognerà decidere la sorte che toccherà al personale britannico impiegato nelle numerose istituzioni comunitarie (soltanto nella Commissione sono circa mille i funzionari sudditi della Regina). Poi, bisognerà ricominciare da zero, decidendo che tipo di accordi economici sottoscrivere con l’Unione Europea: la soluzione più scontata sembra quella del regime che attualmente lega Svizzera più i Paesi dell’EFTA (Islanda, Liechtenstein e Norvegia) a Bruxelles. Questi Paesi hanno accesso al libero mercato europeo, ma non hanno voce in capitolo per quanto riguarda la definizione delle regole del gioco. Va sottolineato che Londra non perderebbe accesso solo al mercato comunitario, ma anche a tutti gli altri con cui l’UE ha sottoscritto – o sta per sottoscrivere – accordi. Pensiamo ad esempio al TTIP, il grande accordo con gli Stati Uniti attualmente in fase di negoziazione. Il Regno Unito dovrebbe dunque rinegoziare ogni singolo accordo, partendo però da una posizione di oggettiva debolezza, trattandosi di una economia nettamente ridimensionata. Stesso discorso vale per gli investimenti: pensate alle numerose aziende manifatturiere (ad esempio nel settore automobilistico) che producono in UK per poi vendere i prodotti finiti nel resto d’Europa. Con l’introduzione di dazi, la delocalizzazione in Gran Bretagna non sarebbe più così conveniente: le aziende sposterebbero le loro fabbriche sul continente (o in Irlanda, chissà , che sta sperimentando una crescita elevata e applica un regime fiscale molto competitivo) con una perdita considerevole di posti di lavoro. In definitiva, siamo proprio sicuri che la “Brexit” sarà un affare per Londra, che in sostanza già godeva dei vantaggi dell’Unione (soprattutto libero scambio) senza compartecipare a tutti i “costi” (tradotto: le rigide regole di bilancio di Maastricht)?
CONSEGUENZE INTERNE – Il rischio per la Gran Bretagna è quello della disgregazione: sociale e politica. Il voto restituisce l’immagine di un Paese fortemente polarizzato al suo interno, dove le linee di frattura sono molteplici: tra città e campagna, tra giovani e anziani, tra gruppi abbienti e “working class” delle città che hanno perso nel corso degli anni la loro vocazione industriale alimentando malessere sociale e disoccupazione. Un Paese che rischia anche lo smembramento, poiché Scozia e Ulster hanno votato convintamente per restare nell’Unione e ora potrebbero indire nuovi referendum per separarsi dal Regno. Se Londra perdesse questi due territori, la sua forza economica e politica verrebbe ulteriormente ridimensionata.
Infine, l’esito del referendum rappresenta anche la disfatta politica di David Cameron. Il premier aveva puntato tutto sulla consultazione, sventolando davanti a Bruxelles la minaccia di una Brexit per ottenere condizioni più vantaggiose. Missione riuscita, che però non ha fatto i conti con il crescente sentimento di anti-europeismo che si agitava nelle regioni più disagiate e nelle fasce sociali più penalizzate del suo Paese. Le dimissioni sono un atto dovuto, ma avvengono in un momento in cui la leadership politica è divisa tra un capo dei Tories fautore dell’anti-europeismo (Boris Johnson), un dirigente laburista che propone politiche economiche ferme agli anni ’70 (Jeremy Corbin), e un politico nazionalista che si è dimostrato il vero vincitore della consultazione (Nigel Farage dello UKIP). Non esattamente un quadro politico ideale.
CONSEGUENZE ESTERNE – Il rischio di un “effetto domino” nel resto dell’UE si fa ora più concreto? I Paesi che potrebbero invocare un’uscita sono diversi, in ragione della diffusione dei movimenti populisti anti-UE che tanto successo ha riscontrato negli ultimi anni. La Francia, dove la destra lepenista raccoglie sempre ampi consensi, andrà alle urne ad aprile 2017: rappresenta un rischio concreto, anche se non nel breve termine. La Spagna ha bisogno di trovare al più presto stabilità politica, altrimenti potrebbe rappresentare un ulteriore fattore di rischio e incertezza. La Germania è al momento stabile, ma nell’autunno 2017 andrà a nuove elezioni federali. E l’Italia? L’esito del referendum costituzionale di ottobre sarà molto importante per decretare se la fase di stabilità politica potrà continuare. In ogni caso, va saputo che nel nostro Paese i trattati internazionali non possono essere oggetto di referendum: dunque, eventuali decisioni sull’abbandono dell’Euro e dell’UE non potranno essere sottoposte al vaglio diretto dei cittadini, con buona pace dei leader politici che invocano questo tipo di consultazioni.
Certo è che la Brexit crea un precedente che fino ad oggi sembrava un “tabù”, e che mette in seria discussione un progetto già fortemente in crisi come quello dell’integrazione europea. I venti del populismo, della xenofobia, della chiusura, rischiano davvero di ingrossarsi con conseguenze che, nel medio-lungo periodo, potrebbero essere preoccupanti per la stabilità sociale e politica del continente. Non è ora il caso di rievocare le pagine più oscure della storia europea, ma è importante ricordare che, molto probabilmente, il principale merito dell’integrazione europea è stato quello di evitare guerre sul suolo continentale da oltre settant’anni.
CHE FUTURO PER L’UNIONE? – Il senso di incredulità e disorientamento oggi è forte e probabilmente rimarrà tale fino a quando non si individuerà una strategia di uscita ordinata. Il Governo di Londra dovrà giocoforza impostare un dialogo responsabile con Bruxelles per garantire una transizione ordinata, che non penalizzi troppo l’economia britannica nel breve periodo.
Più urgente, per il resto degli Stati membri, sembra invece un ripensamento profondo del progetto di integrazione. Senza dimenticare i successi e i traguardi raggiunti, appare indispensabile un cambio di approccio da parte dei leader che negli ultimi anni hanno adottato un atteggiamento intransigente. Un’Europa che si basa solo sul rispetto di rigide regole macroeconomiche o sulla definizione di regolamenti molto stringenti, è destinata a perdere slancio e sostegno popolare. La Brexit è una doccia fredda che deve chiamare ad una rapida inversione di tendenza, prima che sia troppo tardi.
Davide Tentori
Foto: laveupv.com