In 3 sorsi – Dopo l’attentato che il 5 giugno ha colpito la città di Aktobe, il livello di allerta giallo, appena precedente l’attacco in corso, è stato esteso a buona parte del Kazakistan per circa 40 giorni. Dopo gli iniziali sospetti verso il mondo del radicalismo islamico, le indagini sulla vicenda sembrano ora puntare sulla pista della dissidenza interna al regime del Presidente Nazarbayev.
1. MILITANZA PER FEDE O DISSIDENZA? – Secondo le dichiarazioni rilasciate dal Ministero dell’Interno di Astana, ammonta ad almeno 25 vittime ed oltre 30 feriti il bilancio delle due sparatorie che domenica 5 giugno hanno scosso la città nord-occidentale di Aktobe, quando alcuni uomini armati hanno fatto irruzione in due armerie per impadronirsi delle armi ed hanno poi sequestrato un minibus, sfondando la porta di una base della Guardia Nazionale. Gli aggressori avrebbero ucciso 4 civili e 3 agenti di sicurezza, prima che l’operazione di counter-terrorism attuata dalle forze di sicurezza e durata alcuni giorni si concludesse con l’uccisione di 18 presunti terroristi.
A rivendicare l’attacco un sedicente Esercito di Liberazione del Kazakistan, determinato a sostenere «la via democratica dello sviluppo del Paese contro la dittatura della cricca del Presidente Nazarbayev». Ma quanto è verosimile l’esistenza di un simile movimento insurrezionale? A distanza di una settimana, l’identità dei responsabili resta un mistero, come anche le ragioni dell’attentato.
Tra tanti dubbi e poche certezze, la pista dell’assalto di matrice islamica – inizialmente la più accreditata – pare svuotarsi di consistenza di fronte dell’ipotesi di un atto di dissidenza violenta verso il sistema di potere che ruota attorno al Presidente Nursultan Nazarbayev.
Così, la presunta responsabilità di «movimenti radicali pseudo-religiosi che hanno ricevuto istruzioni dall’estero» potrebbe sbriciolarsi per lasciare spazio a dinamiche potenzialmente connesse con le proteste per la riforma del Codice terriero, che negli ultimi mesi hanno interessato le principali città del Kazakistan.
Due i fattori indicativi della complessità della situazione. Anzitutto, il 6 giugno è stato arrestato l’influente imprenditore filo-russo Tokhtar Tuleshov, perchè responsabile di avere pianificato tra aprile e maggio disordini di massa con finalità eversive. Inoltre, nel discorso rivolto alla nazione, Nazarbayev ha biasimato gli avvenimenti recenti (dunque non solo l’attentato di Aktobe) perpetrati da «forze esterne», pur senza riferimenti espliciti.
Fig. 1 – Scontri e arresti durante una recente manifestazione anti-governativa in Kazakistan
2. ALLE RADICI DELLA REVANCHE ISLAMICA – Se la polizia ha immediatamente puntato l’indice contro il terrorismo religioso, fino ad ora non sembra che le autorità siano state in grado di confermare la pista del radicalismo. In effetti, il modus operandi degli aggressori di Aktobe si discosta notevolmente dallo stile adottato dalle milizie jihadiste nei teatri di guerra e di guerriglia del Medio Oriente, così come differisce anche dagli attentati suicidi perpetrati in Europa.
Indubbiamente, il processo di radicalizzazione che negli anni Duemila è intervenuto nel contesto centro-asiatico ha progressivamente messo a nudo la vulnerabilità regionale: nel caso specifico del Kazakistan – secondo le stime diffuse da fonti governative – alcune centinaia di cittadini sarebbero fuggiti in Siria per arruolarsi tra le fila dello Stato Islamico. Ma d’altra parte, come osservano alcuni analisti, l’attenta attività di monitoraggio che l’esecutivo di Astana ha condotto negli ultimi anni nelle regioni settentrionali, anche in virtù del supporto offerto dalla comunità internazionale, ha in buona parte contribuito ad estinguere i focolai di diffusione e reclutamento del jihad.
Per queste ragioni, non è semplice comprendere a quali movimenti radicali istruiti all’estero alludano le forze di sicurezza kazake, tanto più che gli esecutori della strage di Aktobe apparterrebbero a non meglio definiti gruppi «pseudo-religiosi» – a voler riprendere la perifrasi di Nazarbayev – ma non per questo sarebbero necessariamente correlati all’Islam più radicale, fenomeno non espressamente menzionato nei comunicati governativi.
Fig. 2 – Fedeli musulmani in preghiera presso la Hazrat Sultan Mosque di Astana, nel primo giorno del Ramadan
3. SMITIZZAZIONE DI UN GIGANTE – Guidato fin dal 1990 dal Presidente Nazarbayev, il Kazakistan è salito negli ultimi anni alla ribalta internazionale quale modello di stabilità interna e dinamismo economico tra gli Stati dell’ex URSS. Tuttavia, la storia di questo successo regionale si intreccia inevitabilmente con l’intransigenza di un sistema autoritario di sovietica memoria, che confina il dissenso politico in spazi sempre più angusti. Soprattutto negli ultimi due anni, l’inflazione e la diminuzione reale dei redditi medi hanno alimentato un diffuso senso di malcontento sociale. Inoltre, tra aprile e maggio di quest’anno decine di manifestanti sono stati arrestati nel corso delle proteste di piazza contro la riforma fondiaria, che mira a liberalizzare la vendita e l’affitto di terreni agricoli agli stranieri. Pur senza instaurare avventate analogie tra i disordini ora richiamati e le sparatorie del 5 giugno, alcune delicate coincidenze svelano l’inquietudine che percorre i palazzi del potere di Astana.
Difatti, anche se il Presidente Nazarbayev ha deciso di istituire una commissione competente a valutare le ragioni dell’opposizione alla riforma fondiaria, è indubbio che le agitazioni popolari abbiano messo in discussione gli equilibri autocratici del potere statale. Inoltre, non è un caso che proprio il giorno dopo la strage di Aktobe, le autorità abbiano annunciato che un tentativo di colpo di stato era stato sventato: secondo le dichiarazioni della Pubblica Accusa, sarebbe stato proprio questo l’obiettivo sotteso alle proteste dei mesi scorsi, finanziate dal noto imprenditore Tuleshov, già direttore della sezione kazaka di una think tank con sede in Russia. Ancora, l’8 giugno Nazarbayev ha riportato l’attenzione sulle presunte cause esterne che avrebbero provocato la strage di Aktobe, le cui ragioni ispiratrici risiedono forse nel tentativo fallito di accendere «una rivoluzione colorata in Kazakistan».
È chiaro che il conclamato successo del Kazakistan non costituisce un antidoto definitivo contro le turbolenze (non sempre prevedibili) che il Paese si trova ad affrontare sul piano nazionale. Indipendentemente dalle reali cause dell’attacco che la scorsa settimana ha colpito la città di Aktobe, sembra proprio che la stabilità del gigante dell’Asia Centrale cominci a cigolare sotto il peso di molteplici fattori, quali il divario tra ricchi e poveri, la debolezza della società civile, l’impatto del forte controllo statale sulla libertà di espressione e – ultimo ma non meno importante – l’incertezza sul futuro del Paese nell’era post Nazarbayev.
Fig. 3 – Il Presidente Nazarbayev durante il forum del Partito Nur Otan, all’indomani delle elezioni parlamentari dello scorso marzo
Luttine Ilenia Buioni
[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più
Il 1° maggio è entrata in vigore a titolo provvisorio la parte economica dell’Accordo Rafforzato di Partenariato e Cooperazione (EPCA) tra l’UE e la Repubblica del Kazakistan, siglato ad Astana il 21 dicembre 2015. Nel frattempo, il 10 marzo il Parlamento europeo ha adottato la risoluzione 2607/2016 sulla libertà di espressione in Kazakistan, con la quale si denunciavano la pressione sui mezzi di comunicazione indipendenti, gli arresti e le condanne di giornalisti, blogger e altri attivisti kazaki. Inoltre, la risoluzione ha sottolineato che il rafforzamento della cooperazione economica ed politica tra UE e Kazakistan, dovrà essere fondato su valori condivisi, che corrispondano all’impegno attivo e concreto di Astana nell’attuazione di riforme politiche e democratiche.[/box]
Foto: mariusz kluzniak