Da Sarajevo – Rodolfo Toè è il corrispondente dalla Bosnia per Osservatorio Balcani e Caucaso, Balkan Insight, le Courrier des Balkans, ed è anche co-fondatore di Rassegna Est. A Sarajevo da cinque anni, è un osservatore privilegiato per parlare delle scosse telluriche che agitano l’Islam bosniaco, in primis la sfida globale del terrorismo jihadista. Il Caffè Geopolitico lo ha intervistato.
C’è un fenomeno di re-islamizzazione in Bosnia?
C’è ed è stimolato da diversi fattori, esterni e interni. Il più manifesto è la sempre maggiore influenza della Turchia e di Erdogan. La popolazione musulmana bosniaca vede la Turchia come una democrazia musulmana stabile e prospera economicamente, da qui il suo ascendente. Quando, recentemente, il partito di Erdogan ha vinto le parlamentari e lui è stato eletto Presidente della Repubblica, c’era gente in strada a Sarajevo che festeggiava. In occasione della sua visita, ci sono stati bagni di folla davanti alla presidenza simili a quelli durante la visita di Papa Francesco.
L’ambiente sociale come influisce su questo fenomeno?
Sociologicamente, la re-islamizzazione della popolazione musulmana bosniaca avviene secondo due filoni. Da una parte una nuova borghesia urbana, legata alle istituzioni islamiche ufficiali, ha adottato l’Islam come stile di vita. Qui viene definito come Islam chic, è un modo di essere alla moda. Fare il Ramadan diventa una cosa “cool”: ci sono sempre più ristoranti, anche quotati, che offrono il pacchetto completo con la cena per chi ha digiunato tutto il giorno. Si rompe il digiuno con il piatto tradizionale, poi vengono serviti carne halal e datteri. Quando sono arrivato qui nel 2010, questo fenomeno non era così manifesto.
Dall’altra parte, c’è una re-islamizzazione che si innesta su condizioni sociali di partenza diverse. È l’Islam della periferia, degli emarginati, ed è quello che può sfociare nel radicalismo. Questo è determinato dalla penetrazione di comunità di matrice arabo-salafita iniziata durante il conflitto del 1992-1995. Sono in grado di avvicinare persone escluse socialmente, anche tramite incentivi economici, in un Paese che ha un PIL pro capite di 265 euro e una disoccupazione superiore al 40%. Persone che non avevano mai osservato i precetti islamici entrano in queste comunità, dove finalmente sono accolti come fratelli. Si sentono integrati in un insieme più grande. Gradualmente smettono di bere alcolici, di fumare, di ascoltare musica. Elementi marginalizzati socialmente si vedono offrire possibilità di supporto sociale, in cambio della loro adesione alla comunità. Questo fa presa. Un film del 2010, Il sentiero, racconta bene queste dinamiche.
Tra i praticanti di questi due tipi di Islam non intercorrono rapporti, sono due facce diverse dello stesso fenomeno. Anzi la stessa comunità islamica ufficiale (la Islamska Zajednica) è in guerra aperta con le sacche di radicalismo. Ma c’è una condivisione politica: entrambe votano il partito SDA, condividono gli stessi portavoce. La narrazione politica di riferimento è quella di essere bosgnacchi [bosniaci musulmani, ndr] e di dover quindi eleggere l’unico partito che difende questa identità.
E l’influenza araba?
La Bosnia sta diventando un terreno sempre più fertile per moltissimi turisti e investitori dei Paesi arabi, per quanto gli arabi siano ancora ben lontani dall’essere tra i primi investitori nel Paese.
Gli investimenti arabi sono una tendenza regionale, ma ci sono delle tipicità bosniache. Negli altri Paesi l’investitore arabo si limita a investire in alcuni settori dell’economia, come gli Emirati Arabi Uniti stanno facendo da alcuni anni in Serbia. In Bosnia si muovono anche le persone, non solamente i capitali. Qui si parla di migliaia di qatarioti o sauditi che arrivano per acquistare appezzamenti di terreno o una casa. Vengono qui per tre mesi in vacanza. Una famiglia qatariota percepisce la Bosnia come un posto in cui si può comprar casa e anche temporaneamente vivere senza problemi. Favorito dal contesto (i musulmani sono maggioranza relativa della popolazione), in Bosnia si è sviluppato un turismo Islam-friendly in grado di attrarre la classe media araba, che però non esce dal Paese. Le barbe lunghe e i niqab spariscono dal confine bosniaco in poi, non li si vede in Croazia o in Serbia. Personalmente lo vedo come un fattore positivo. Porta all’aumento degli investimenti: soldi, infrastrutture, economia che si fluidifica.
Si crea però uno scontro tra i musulmani autoctoni e quelli stranieri?
Non uno scontro, ma dinamiche che possono tradursi in una segregazione silenziosa, in separazioni ulteriori tra comunità musulmana bosniaca e resto della popolazione. Un esempio: qui c’è molta gente che vive le “ninja” [dispregiativo per indicare le ragazze che indossano il niqab, ndr] con disagio, qualcosa di alieno alla propria tradizione. Oppure, attorno a Sarajevo ci sono due montagne in cui si va a sciare: Bjelasnica, in Federacija (parte musulmano-croata del Paese, ndr), e Jahorina, in Republika Srpska (parte serba). I turisti arabi che vogliono andare in montagna preferiscono la prima. È un tipo di penetrazione turistica che impone di essere dinamico, quindi anche di pensare dei servizi targettizzati. Gli albergatori del posto si adattano, sanno che è più facile che preferiscano sedersi in posti in cui non si servono alcool o maiale. L’offerta si adegua alla domanda. Questo crea delle difficoltà, banali forse, a chi invece ama farsi una birra dopo aver sciato. Se vuole un certo tipo di servizio, impara che deve andare da un’altra parte, per non ritrovarsi a girare ogni bar chiedendo “servite alcool?”. Non è una congiura deliberata, ma contribuisce a dividere le due comunità.
Fig. 2 – Un gruppo di musulmani radicali bosniaci
Vedi un fil rouge tra gli attentati terroristici occorsi recentemente, dipinti come attentati a matrice jihadista? Esiste un “caso Bosnia”?
La Bosnia è tra i primi esportatori in Europa di foreign fighters. Dal punto di vista percentuale sul totale della popolazione, da qui partono più jihadisti che dagli altri Paesi europei (circa 92 ogni milione di abitanti). Numericamente questo è un problema, è nei rapporti della SIPA [State Investigation and Protection Agency, ndr] e degli specialisti.
Un caso bosniaco c’è, ma non dipende dall’Islam. Dipende dal sistema economico e dalla marginalizzazione che si è creata, favorita da un immobilismo politico endemico. In questo Paese sopravvivono centinaia di migliaia di persone che non hanno niente, non sanno cosa fare della propria vita e del proprio futuro. Dunque alcuni cadono naturalmente nell’attrazione per l’Islam radicale e anelano a questo tipo di unione morale con salafiti e altri appartenenti a frange estremiste. La radicalizzazione è una delle risposte, ma il problema non è l’Islam, bensì la situazione economica del Paese.
Simone Benazzo
[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più
Il mese scorso, il principale esperto di terrorismo in Bosnia, il professor Vlado Azinovic, ha pubblicato “Bosnia Herzegovina and the nexus with islamist terrorism”, un dettagliato report analitico sul jihadismo in Bosnia che sostanzialmente conferma il quadro emerso in questa intervista: potete scaricarlo gratis qui.
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