Lo scorso 30 aprile volte di fumo scuro, denso, si sono levate dal territorio keniota. Le disposizioni del presidente Uhuru Kenyatta sono state chiare: requisire l’avorio rilevato sul mercato nero e formarne enormi pire da destinare alle fiamme. La crescente domanda dei mercati asiatici sta portando gli elefanti all’estinzione. L’Africa intera sta fronteggiando una crisi ambientale drammatica. Un messaggio alla comunità internazionale andava lanciato.
UN NUOVO MONDO – «Nessuno, e ripeto, nessuno, dovrà ottenere profitto dalla vendita di avorio, dal momento che questo commercio è portatore di morte per i nostri elefanti e per il nostro patrimonio naturalistico». È con queste parole, pronunciate nel Nairobi National Park, che il Presidente keniota ha dato il via a uno dei più grandi roghi di avorio della storia. Sono 105 le tonnellate di materiale consegnate alle fiamme, un quantitativo valso la vita a circa 7mila pachidermi. A esse si aggiunge una tonnellata e mezzo di corni di rinoceronte. Oggi la sopravvivenza di questi sovrani della savana è appesa a un filo. I rinnovati rapporti economici con il continente asiatico hanno riversato su tutto il territorio africano un’apparentemente inesauribile domanda di prodotti di origine animale. Gli impieghi sono di svariata natura: dall’intarsio delle zanne di elefante (antica tecnica di artigianato da conservare e tutelare secondo le Istituzioni cinesi), alla polvere di corno di rinoceronte (utilizzata nel campo della medicina tradizionale). Il serbatoio di questa richiesta è la rampante crescita della classe media asiatica, rappresentata, secondo l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), dai cittadini in grado di spendere giornalmente un valore, a parità di potere d’acquisto del 2005, oscillante tra i 10 e i 100 dollari americani. L’OCSE stima che dagli 1,8 miliardi di persone del 2009, entro il 2030 verranno considerati appartenenti a questa categoria 4,9 miliardi di individui. I due terzi di questo valore saranno rappresentati da asiatici: con oltre un miliardo di persone nella fascia media, la Repubblica Popolare Cinese (RPC) andrà ad occupare, in assoluto, la quota maggioritaria.
Fig. 1 – Una pila di avorio data alle fiamme il 30 aprile nel Nairobi National Park
COSA DICE IL MERCATO – Contrariamente a quanto si possa pensare, il continente nero non è nuovo a fenomeni di questo tipo. Tra gli anni Settanta e Ottanta l’Africa si trovò a fronteggiare una crisi simile, per proporzioni, a quella odierna. Arrivando a picchi di uccisione di 100mila esemplari d’elefante l’anno, e registrando un declino del 97,6% nella popolazione del rinoceronte nero nel periodo compreso tra gli anni Sessanta e Ottanta, nel 1989 a Nairobi venne organizzato uno storico rogo di 12 tonnellate di avorio sequestrate ai bracconieri. L’obiettivo ultimo era evitare che quel materiale cadesse nelle mani di facoltosi uomini d’affari giunti soprattutto dall’Estremo Oriente per tentare di acquistare le zanne. Un cambiamento era necessario e la risposta della comunità internazionale non tardò ad arrivare, concretizzandosi nel 1989 col divieto di commerciare avorio imposto dalla Convenzione sul Commercio Internazionale delle Specie Minacciate dall’Estinzione (CITES). Il provvedimento ebbe il successo sperato, calmando la voracità dei mercati. Molte attività di commercio vennero dismesse, causando una picchiata nella domanda e dunque nei prezzi delle zanne d’elefante e dei corni di rinoceronte. Questo sino all’arrivo del nuovo millennio, quando la crescita asiatica diede nuova linfa a un settore che sembrava ormai destinato alla storia. Il concatenarsi di tali eventi portò così i grandi gruppi della criminalità organizzata ad adoperarsi per porre in essere nuovi canali di comunicazione che permettessero la nascita un fiorente mercato nero. Come se non bastasse alcuni Governi africani organizzarono, in via del tutto eccezionale, la vendita di due partite d’avorio, pensando che, portando nuova offerta su un mercato nettamente sbilanciato a favore della domanda, si sarebbe riusciti a porre un freno alle insorgenti attività di bracconaggio. La prima vendita, al Giappone, venne realizzate nel 1999. La RPC fece seguito nel 2008. Tali occasioni rinvigorirono un settore che, pur continuando a esistere legalmente sul territorio cinese, pareva ormai atrofizzato. La gravità della situazione, nonché la difficoltà a porre un freno al trend in atto, trova espressione nell’esorbitante variazione di prezzo dell’avorio: dai 5 dollari al chilogrammo del 1989, ai 2.100 del 2014 sul mercato cinese. Il dibattito è aperto. Con un business di rendita annuale stimato, secondo le Nazioni Unite, tra i 70 e i 213 miliardi di dollari americani, la scelta di dare alle fiamme 105 tonnellate di avorio si configura quantomeno discutibile. Non sono pochi, infatti, i sostenitori della tesi secondo cui ridurre il pool di offerta di un bene sempre più raro non faccia altro che alimentare la corsa già avviata. I venditori si vedrebbero ulteriormente incentivati dall’incremento dei margini di guadagno atteso a breve, mentre i compratori continuerebbero a dimostrare voracità per un bene sempre più limitato, e ancor più associabile all’appartenenza a uno status quo elevato. Vista la gravità della situazione il Governo keniota ha fatto le sue valutazioni: il clima di indifferente compiacenza della comunità internazionale andava scosso per cercare di ottenere una soluzione politica di respiro globale.
Fig. 2 – Ranger kenioti in azione
LOTTA INTESTINA – Recenti inchieste identificano una forte concentrazione delle attività di bracconaggio nella fascia centrale del continente africano, area abitualmente frequentata dai grandi erbivori. Le incursioni sono condotte da gruppi ribelli di varie nazionalità e in questo quadro geopolitico altamente frammentato il ruolo di potenza viene spesso giocato da milizie terroristiche presenti negli Stati confinanti la regione oggetto di razzia. Nell’Africa che sanguina, l’imperdonabile genocidio di elefanti e rinoceronti diventa un’incredibile arma di distruzione di massa nelle mani dei vari gruppi armati, sempre affamati di denaro per finanziare la loro causa. I miliziani somali e fondamentalisti islamici di al-Shabaab varcano spesso il confine keniota con il fine ultimo di trovare avorio da riversare sul mercato nero. Lo stesso dicasi per l’Esercito di Resistenza del Signore, movimento armato a matrice cristiana guidato dal ricercato Joseph Kony, attivo in alcuni dei territori più densamente popolati dalla fauna africana: Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, Sud Sudan e Uganda. Tuttavia sono i combattenti sudanesi a dare origine ad alcune delle campagne di bracconaggio più violente che il territorio africano abbia mai sperimentato. Spinti dalla necessità di trovare continue risorse per proseguire le lotte intestine che logorano il Paese d’origine, questi guerriglieri armati di visori notturni e AK-47 si sono dimostrati in grado di agire ben oltre i confini nazionali, arrivando a percorrere distanze di 700 chilometri e approfittando dell’instabilità della Repubblica Centrafricana causata dall’insorgenza nel 2013 di Seleka, organizzazione militare a maggioranza islamica. Non di rado i gruppi si danno battaglia nella regione, consci che ogni colonna di guerriglieri potrebbe avere con sé avorio o diamanti. Perfino il Sudafrica non è esente da fenomeni di questo tipo. Le indiscriminate attività di bracconaggio poste in essere nel limitrofo Mozambico hanno segnato la completa estinzione del rinoceronte, che trova protezione invece in territorio sudafricano, attirando l’interesse di criminali del vicino Paese. I ranger, pur essendo mal equipaggiati e numericamente inferiori rispetto alle unità paramilitari che si trovano a combattere, restano oggi l’unico baluardo a difesa del patrimonio naturalistico africano. In questa cornice di caos debordante un ruolo non indifferente viene infine giocato dalle comunità locali. Spesso abbandonate dal Governo centrale, esse trovano nella caccia agli animali e nella vendita di avorio l’unico metodo di guadagno.
Fig. 3 – La Cina ha un grande ruolo nella produzione e nella commercializzazione di avorio in Africa
LA VIA DEL SANGUE – Che strada segue, dunque, l’avorio? Una volta uccisi gli animali, i corni e le zanne ottenute vengono rapidamente portate verso gli hub di stoccaggio illegale presenti nell’entroterra africano. Qui, quando la merce è adeguatamente camuffata sotto container stipati di legna o carbone, vengono predisposte le spedizioni in direzione dei principali punti di sbocco verso l’esterno. Una via, quella che fa rotta verso ovest, viene percorsa da convogli che si dirigono ad Accra, Lagos, Lomé e Kinshasa per approdare sul mercato statunitense (secondo al mondo per volumi) ed europeo. L’altra direttrice, invece, vede la parte orientale del continente africano collegarsi, attraverso le numerose navi cargo che solcano instancabilmente l’Oceano Indiano, alla regione del Sudest asiatico. Dai burrascosi e corrotti centri di Mombasa, Dar es Salaam e Zanzibar, passando per il trafficato Stretto di Malacca, il materiale arriva nei porti del nord del Vietnam, della Thailandia e di Hong Kong che, ancora oggi, con l’indifferente compiacenza tipica di ogni grande avamposto commerciale, si presta a svolgere la funzione di hub mondiale per il commercio di un bene che è simbolo di sofferenza e di un mondo che non funziona.
CONCLUSIONI – In un continente in cui ogni giorno diventa una lotta per la sopravvivenza, le elevate possibilità di guadagno portate dall’inesauribile domanda asiatica si configurano come la minaccia numero uno alla tutela e alla conservazione del patrimonio naturalistico africano. Anche se la finestra temporale per un possibile intervento con esito positivo va restringendosi rapidamente, rimangono spazi per manovre ad ampio respiro. Nonostante non sia ancora possibile prevedere l’effetto di un totale divieto del commercio d’avorio, a un’azione della comunità internazionale che preveda un serio inasprimento delle pene per i contrabbandieri intercettati sarebbe interessante affiancare forme di partenariato tra comunità locali, attori privati ed enti governativi. Molte delle economie africane basano una considerevole parte dei propri introiti sul turismo e l’estinzione di una parte iconica della fauna locale costituirebbe un’ulteriore forte danno a economie che faticano, ancora oggi, a trovare una certa stabilità. Ecco perché creare policy a carattere inclusivo che consentano alle comunità presenti nelle riserve di ottenere sostanziale beneficio economico dai profitti generati da parchi di proprietà pubblica, ma a partecipazione privata, dovrebbe incentivare l’ostracismo verso le attività di bracconaggio. Una panacea, questa, che però ha il sapore di una soluzione non definitiva.
Andrea Braga
[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più
Polvere e Storia – L’esplorazione e le guerre, così come i grandi periodi di pace, portano in grembo da sempre la necessità di creare nuove opportunità economiche. Ancora prima della scoperta del continente americano, il mondo fino ad allora conosciuto visse una prima vera fase di globalizzazione attraverso quel fenomeno commerciale e di relazioni politiche che prese il nome di Via della Seta. A partire dal XIII secolo, grazie soprattutto alla stabilità geopolitica garantita dal dominio dell’Impero mongolo, i commerci tra Occidente e Oriente fiorirono, intensificandosi con gli anni e creando contatti di natura economico-culturale tra due mondi non più tanto distanti. Con la progressiva disgregazione dell’Impero, la fine della pax mongolica portò instabilità sulla rotta commerciale che, passando sotto l’egida frammentata di potentati regionali, vide diminuire sostanzialmente il transito di mercanzie. Oggi la politica espansionistica della potenza cinese, coniugata alla necessità di investimenti infrastrutturali del continente nero, sta rapidamente portando alla nascita di una rotta marittima per una nuova Via della Seta. Da Hong Kong a Mombasa, da Mombasa a Nairobi, questo corridoio commerciale porterà, tramite la costruzione di moderne reti stradali e ferroviarie, la forte domanda di avorio del continente asiatico direttamente nell’entroterra africano, configurandosi come la principale minaccia alla sopravvivenza dei grandi mammiferi della savana. [/box]
Foto: kasiawallis