Non solo petrolio, razzie di beni privati, acquisto agevolato di armi da Paesi complici: per finanziare la propria guerra, il sedicente Stato Islamico saccheggia i musei e ne rivende i capolavori sul mercato nero globale dell’arte. Per di più, se il patrimonio artistico appare blasfemo, o impossibile da trasportare, sceglie spesso di distruggerlo. Ecco allora la proposta tutta italiana di inviare personale ONU specializzato durante le missioni di pace.
COMUNICARE LO SMANTELLAMENTO DI TRADIZIONI PLURIMILLENARIE – Non convince la tesi per cui il Califfato impiegherebbe tempo ed energie a distruggere un patrimonio culturale come quello siriano, tra i più antichi e preziosi al mondo, “solo” per questioni di mancata accettazione della concorrenza storico-ideologica. Come se abbattere templi e statue potesse fornire l’illusione di essere gli unici autentici padroni di un territorio che ha fatto da culla alle prime civiltà strutturate. Come se devastare un museo equivalesse a ristabilire la supremazia dell’Islam sull’iconografia “infedele” di precedenti popoli. Chiaro per l’appunto che tale tesi non soddisfi, e che dunque questo impegno a eradicare il passato rientri in una più generale strategia di “comunicazione esterna” di cui l’ISIS si serve non solo per terrorizzare l’Occidente e destabilizzare l’opinione pubblica mondiale, ma anche per adescare nuove reclute. Una sorta di esibizionismo che spesso sconfina nel macabro, come ben ricordiamo dalla decapitazione di Khaled Assad, ottantaduenne responsabile del sito archeologico di Palmira, il cui corpo è stato appeso a un palo con manifestazioni di giubilo. Come sottolineato nel rapporto ISPI curato da Paolo Magri e Monica Maggioni, quest’attenzione pervasiva ai mass media e all’autoesaltazione delle proprie “gesta eroiche” non è un fatto nuovo per il terrorismo di matrice jihadista, che da Al-Qaida in poi − ma anche da prima − amplifica la potenza delle proprie azioni tramite la propaganda, rendendo la propria “causa” allettante agli occhi di potenziali “combattenti” e catalizzando da parte dell’Occidente reazioni disarticolate ed esagerate, ma soprattutto estemporanee anziché ragionate, che aggravano il problema fornendo ai jihadisti un vantaggio strategico.
Fig. 1 – Scorcio dell’antichissima città di Palmira
KABUL 2001, BAGHDAD 2003, PALMIRA 2015: LA STORIA SI RIPETE – Quella dei saccheggi e delle devastazioni perpetuate ai danni del patrimonio artistico durante gli eventi bellici è una questione antica quanto il mondo. In area “ex mesopotamica” e, più in generale, nord-orientale si è però caricata spesso − e in particolar maniera negli ultimi decenni − di forti connotazioni ideologiche, e di una ciclicità che non lascia scampo alle responsabilità diffuse di una comunità internazionale troppo passiva. Mir Abdul Rauf Zaker, direttore dell’Istituto Nazionale di Storia di Kabul, ha ben descritto il piacere sadico − quasi si trattasse di una “missione personale su mandato divino” − che pareva invadere i Taliban nel marzo 2001 mentre erano intenti a far scempio con l’accetta dei tesori del Museo nazionale della capitale afghana, in ottemperanza all’editto del 26 febbraio con cui il mullar Mohammed Omar Mujahid − poi ridotto in clandestinità dall’attacco statunitense seguito all’attentato delle Torri Gemelle − aveva statuito la distruzione di tutte le opere di arte figurativa (in quanto un’interpretazione ristretta del dettato coranico vieterebbe di raffigurare la divinità per arginare fenomeni idolatrici). E ancora, la sofferenza dei custodi dell’arte si ripropone a Baghdad, due anni dopo, con ingenti razzie all’interno del Museo Nazionale Iracheno, dettate certamente dalla previsione di notevoli ritorni economici, ma al contempo dall’esigenza di manifestare un’insofferenza più o meno giustificabile contro “l’invasore statunitense” e l’esportazione forzata di modelli democratici ritenuti non aderenti al proprio spazio socio-istituzionale. Ma la profanazione raggiunge l’apice anche mediatico dal febbraio all’ottobre di quest’anno, con le violenze perpetrate contro il sito UNESCO di Palmira, e in particolare con il danneggiamento del canaanita santuario di Baalshamin e dell’arco di trionfo di epoca romana. Già, romana. Sarà un caso? Impossibile evitare di pensare al riferimento a Roma, sede del papato. Peraltro le vestigia di questa “Sposa del Deserto” sono finite coinvolte in combattimenti pluristratificati, con danneggiamenti causati anche da altri attori del conflitto, quali ad esempio le milizie YPG curde, le truppe governative, alcune fazioni dei cosiddetti ed eterogenei “ribelli siriani”. Non solo ISIS, purtroppo, e questo rende tutto più complicato anche a livello di responsabilità che dovranno essere accertate.
Fig. 2 – Il logo della United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization (UNESCO) proiettato sul palazzo che ne è sede
REPARTI “OPERATIONS” DELL’UNESCO NELLE MISSIONI DI PEACEKEEPING – In questo quadro tetro, magra (ma non troppo) consolazione può essere suscitata da un proposito − perché di questo ancora si tratta − che ha trovato attenzione e accoglimento da parte del Comitato Esecutivo Unesco di Parigi lo scorso 19 ottobre, e approvazione definitiva per acclamazione da parte della Conferenza Generale Unesco il 13 novembre, e che si spera in tempi rapidi possa essere declinato operativamente. Il riferimento è alla proposta tutta italiana − avanzata dal ministro Franceschini insieme al ministro Gentiloni e al premier Renzi e co-firmata da 53 Paesi con l’endorsement dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza ONU − di includere una “componente culturale” nei reparti di peacekeeping e peace-enforcement destinati a teatri complessi e a rischio come quello siriano. L’Italia, insomma, si confermerebbe protagonista della cultural diplomacy − da altri soprannominata brand diplomacy − sulla scena internazionale, anche in forza della propria indiscussa supremazia storica (nonché della propria posizione di primo Paese al mondo per numero e diversità di siti Unesco). Al momento i dettagli non sono molti, e trattandosi di Nazioni Unite è bene andarci cauti con l’ottimismo: le difficoltà nell’implementazione del progetto saranno molte, a partire dalla composizione di queste task force, fino alla sempreverde carenza di fondi, dalla difficoltà di individuare i criteri per stabilire priorità tra tutti i siti che andrebbero protetti, fino alla possibilità tecnologica di prevenire effettivamente disastri di natura umana. L’impegno italiano in questo senso, comunque, ha radici consolidate: anche in EXPO, durante la due giorni che ha impegnato più di 80 ministri della Cultura da tutto il mondo, la salvaguardia del patrimonio in situazioni di guerra è risultato tema centrale. Le guerre, soprattutto quelle paraufficiali, si finanziano con i traffici illeciti su scala globale: traffici di droga, armi convenzionali e non, tabacco, mercenari, giovani donne, bambini-soldato, organi, oggettistica museale. Si spera che a breve potremo togliere almeno l’ultima voce da questo angosciante elenco. Infine, se si trattasse “solo” di fasti antichi parleremmo di “poca cosa” di fronte alle tragedie umanitarie in essere nel mondo: tutto ciò diviene interessante invece se la volontà di tutelarle si intende quale metafora di un riconoscimento del fatto che per provare a risolvere i conflitti del XXI secolo è imprescindibile la perizia culturale (ovvero la capacità di estinguere il contendere attraverso la mediazione tra codici etnici e intergenerazionali).
Fig. 3 – Il Forum sulla cultura come strumento di dialogo, tenutosi in EXPO Milano 2015
IL DIRITTO/DOVERE ALLA TUTELA DEI PATRIMONI DELL’UMANITÀ – C’è comunque un aspetto importante da considerare. Se è noto che i confini e le definizioni del diritto internazionale sono tanto più esposti a differenti interpretazioni e gradazioni attuative quanti sono gli ordinamenti più o meno giuridicamente strutturati che prendono in causa, ciò non può che confermarsi vero per la tutela dei “patrimoni dell’umanità”, materiali (una colonna, una cascata, un volume a stampa, ecc.) o immateriali (un dialetto, un modo musicale, una tradizione coreutica, una preghiera, ecc.) che siano. Ciò peraltro non esclude l’esplicitazione di casistiche precise e dichiarazioni di princìpio in merito all’interno di fonti normative. Nel Chicco in più una rassegna di base dei sovracitati diritti e doveri di ciascuno di noi.
Riccardo Vecellio Segate
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Un chicco in più
Riferimenti normativi e programmatici essenziali in merito alle disposizioni nazionali e internazionali sulla tutela del patrimonio artistico-culturale
- Convenzione di Parigi sulla Protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale (1972)
- Dichiarazione Universale dell’Unesco sulla diversità culturale (2001)
- Raccomandazione delle Commissioni Esteri e Difesa della Camera dei Deputati sul recepimento della Risoluzione Unesco (2015)
- Cenni sulle Convenzioni de L’Aja del 1899, 1907 e 1954
- Altre convenzioni Unesco e leggi nazionali
- Esempi applicativi in àmbito nazionale
- Considerazioni giuridiche sulle forme patrimoniali immateriali
- Considerazioni sui modelli comunitari e sovranazionali di circolazione dei beni artistici
- Altre considerazioni sul rapporto tra la tutela del patrimonio storico-artistico e lo sviluppo della persona umana
- Approfondimento sugli strumenti giuridici che supportano la “politica culturale” perseguita dalle principali istituzioni europee
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