Diplom@tic intervista oggi un ospite d’eccezione: Antonio Deruda, esperto di comunicazione e diplomazia. Deruda è consulente e docente di comunicazione. Specializzato in strategie online e uso dei social media in ambito istituzionale e internazionale. Insegna ai master dell’Università Luiss, della Business School del Sole 24 Ore e della SIOI. Organizza corsi di formazione per aziende ed enti pubblici. Lavora su progetti di comunicazione per molteplici clienti: aziende multinazionali, organizzazioni istituzionali, startup e agenzie di comunicazione.
ICG : Come spieghi nell’introduzione al tuo libro “Diplomazia digitale. La politica estera e i social media”, la diplomazia sta cambiando per effetto delle nuove tecnologie della comunicazione e piattaforme digitali. Allo stesso modo, anche la figura del diplomatico sta attraversando una fase di evoluzione. Citando quanto scrivi, bisogna capire “se i diplomatici possano continuare a svolgere bene il loro lavoro senza partecipare attivamente nella Rete e senza usare gli strumenti con i quali i cittadini e i rappresentanti politici comunicano”. Quali sono le sfide e i vantaggi che il digitale rappresenta per il lavoro dei diplomatici ogni giorno?
AD: Direi che oggi un diplomatico digitale ha un notevole vantaggio rispetto ai propri colleghi. Conosce e quindi sa come sfruttare strategicamente le nuove dinamiche della comunicazione online, sa come monitorare e filtrare i flussi di notizie sulla Rete e sa utilizzare quelle piattaforme nelle quali cittadini, media e istituzioni si scambiano informazioni. Le sfide per costruirsi questo bagaglio di competenze sono numerose e complesse. Per citarne solo alcune: trasformare la mera diffusione di messaggi in conversazioni, partecipare alle discussioni virtuali, ascoltare le sollecitazioni che provengono dal basso e stabilire un dialogo costruttivo con i nuovi network di cittadini, continuando ovviamente a coltivare i tradizionali rapporti istituzionali con i governi.
ICG: Il tuo libro descrive non solo come la figura del diplomatico stia cambiando ma come le ambasciate più all’avanguardia si siano dotate di figure o interi team professionali che possano coadiuvare nella comunicazione con i pubblici internazionali di vari Paesi. Sembra che il diplomatico di oggi non corrisponda più a quello dell’immaginario comune. Quali elementi, funzioni e figure della diplomazia tradizionale rimangono oggi? E quali sono le nuove funzioni e figure della diplomazia contemporanea?
AD: Mi piace citare la definizione di diplomazia digitale che John Kerry ha dato poco tempo fa sul blog del Dipartimento di Stato USA: “diplomazia efficace vuol dire mettere l’uso delle tecnologie al centro del nostro lavoro per portare avanti gli obiettivi di politica estera, per colmare il divario con i cittadini del mondo e per interagire sia con il pubblico straniero che con i nostri concittadini. Il termine diplomazia digitale è dunque ridondante. È diplomazia, punto”. Ecco, io ritengo che le funzioni siano sostanzialmente quelle di un tempo. Anche la public diplomacy, il tentativo di comunicare e cercare di influenzare il pubblico straniero, non è un fenomeno nuovo portato dai social media, ma già consolidato da diversi anni. Sono cambiati gli strumenti a disposizione. E questo comporta necessariamente un aggiornamento delle competenze e dei metodi di lavoro.
ICG: Quali sono le tue proposte per una figura diplomatica adatta ai nostri tempi? Quale tipo di formazione sarebbe auspicabile per i nuovi diplomatici in modo che possano cogliere potenzialità e limiti delle attuali tecnologie della comunicazione?
ICG: L’elemento digitale è spesso citato come paradigma di più trasparenza e minor distanza tra rappresentati politici e popolazioni, o meglio “pubblici”. Ma paradossalmente tutto questo non rischia di rovesciarsi nel suo opposto? In altre parole, una più pervasiva presenza dell’opinion-making sulla rete fornisce un accesso molto più immediato e vasto ad informazioni che potrebbero minare certe operazioni di public diplomacy, come per esempio il caso di Wikileaks o lo scandalo del Datagate. Quali sono le tue considerazioni in merito?
AD: A mio giudizio Wikileaks o il Datagate non hanno molto a che fare con la Public Diplomacy. Si è trattato di operazioni di sottrazione illegale e diffusione di dati. Senza dubbio occorre considerare che una delle forze propulsive del Web è la forte richiesta dal basso di massima trasparenza, che si indirizza verso brand, grandi corporation, rappresentanti politici e governi. Ciò complica il rapporto tra la Rete e l’attività diplomatica, che per sua stessa natura il più delle volte si svolge dietro le quinte. Questo non deve però essere preso come un facile alibi per chiudersi e non cercare di costruire un rapporto più trasparente con i cittadini. Sta alla sensibilità dei diplomatici trovare il giusto equilibrio tra i paradigmi della comunicazione online e le esigenze della loro attività.
ICG: Sembra che alcune ambasciate, nel rinnovare il loro lavoro di public diplomacy, abbiano puntato molto sull’uso di social media e internet per comunicare con i loro pubblici in altri Paesi. I media tradizionali, ad esempio la televisione e la radio, potrebbero però essere utili strumenti per comunicare con le popolazioni di Paesi in cui non tutti hanno accesso a internet e/o a piattaforme di comunicazione digitale. Quali sono le tue riflessioni in merito? Nell’ambito della public diplomacy, in che modo si lavora su strategie di comunicazione che integrino nuovi media e media tradizionali?
AD: Su questo punto sono sempre molto netto: tv, radio e giornali restano fondamentali nelle strategie di comunicazione. Bisogna integrare più piattaforme e sviluppare la capacità di declinare i propri messaggi in base ai canali di diffusione e al pubblico di riferimento. C’è spesso troppa enfasi sulla cosiddetta disintermediazione, la possibilità di aggirare i media tradizionali per rivolgersi direttamente al proprio target usando i social media. È una tattica che i diplomatici possono usare, ma non può sostituire le tradizionali attività di relazioni con i media. Sarebbe una strategia perdente.
ICG: Il rapporto tra policy-maker, diplomatici e media durante i negoziati internazionali sembra essere in costante evoluzione. Per esempio, nel caso degli ultimi negoziati tra Iran e il gruppo dei “5+1”, i processi di negoziazione tradizionali sono stati preceduti e accompagnati da comunicazione mediatica a colpi di articoli di giornale, servizi televisivi, tweet che in qualche modo instauravano una comunicazione tra i soggetti coinvolti soprattutto prima dei negoziati “a porte chiuse”. E’ vero che una parte delle comunicazioni tra chi negoziava è circolata sui media ma è anche vero che, durante i negoziati, non tutta l’informazione sul dialogo tra Iran e “5+1” è stata resa pubblica. Quanto pensi che i media, tradizionali e non, possano realisticamente interferire nei processi di diplomazia tradizionale?
AD: Per il bene delle relazioni internazionali spero che anche in futuro sia così, ovvero che gli accordi si continuino a raggiungere a porte chiuse e non su Facebook e che i negoziati non si conducano con scambi di tweet. Altra questione è l’uso dei media per fare pressione sulle trattative, che è una vecchia consuetudine. Un tempo i portavoce uscivano dalle sale riunioni dei negoziati per dare anticipazioni o veicolare informazioni di parte ai giornalisti. Oggi i diplomatici più scaltri a livello comunicativo mandano tweet direttamente dai tavoli dei summit.
La nostra intervista si conclude qui. Rivolgiamo un caloroso ringraziamento ad Antonio Deruda per la sua cordialità e disponibilità!
Annalisa De Vitis – Marco Lucchin – Patrizia Rizzini Cancarini